lunedì 28 febbraio 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Sabato, 3 luglio2010
Alla televisione è allarme rosso. Sembra che un’ondata di calura stia per investire l’Italia e che intenda fare strage di anziani e di ammalati. Sono state anche indicate le città “a rischio”, e fornite raccomandazioni soprattutto agli “over 65”, che secondo me, ne hanno piene le palle di essere considerati handicappati ad ogni pisciata di cane. Specie quando, dietro le quinte, si sta ordendo un complotto per togliere loro la patente di guida. Ormai è definitivo, la logica è sempre più patrimonio del passato, quando i filosofi davano la vita per impedire che si facesse violenza a un sillogismo. La televisione ci ha rincretinito con la caterva di incidenti che ci propina ogni giorno, con dovizia di particolari, anche di quelli di cui non ci può fregare di meno, con un tema disgraziatamente ricorrente, e cioè che della maggior parte di tali incidenti sono responsabili giovani irresponsabili che si mettono al volante impasticcati o ubriachi, quando non tutte e due le cose. Come funzionerebbe un ragionamento logico saprebbero dircelo anche i miei nipotini, gemelli, età quattro anni e mezzo. Se sono i giovani a causare il maggior numero di incidenti per insistere nel volersi mettere al volante in preda ai fumi dell’alcol o della droga, togliamo la patente ai giovani. Si potrebbe anche provare a chiederlo a una delle specie più evolute di scimmie, lo scimpanzé, per esempio, con un linguaggio di suoni e gesti, in cui sono specialisti gli etologi. Se si riuscisse a porgli il problema, credo che non potrebbe che mugugnare la stessa risposta. E’ l’essere umano adulto che ha nel proprio DNA la capacità, l’abilità, la suprema attitudine a confondere e storpiare un concetto, a rendere oscuro ciò che è chiaro come il sole, a fare di una virtù un peccato ma, in maggior misura, a fare di un peccato una virtù, a fare di un criminale un agnellino, a rovesciare le colpe dei figli di puttana sugli inermi e sugli indifesi. Dunque, al di fuori di ogni rigore logico, non solo, ma anche di ogni parvenza logica, le menti superiori, quelle a cui sono soggetti i destini della “gente comune” (non vi è certo sfuggito che la TV e la stampa ci hanno appioppato questa etichetta), hanno partorito quanto segue – I giovani che si drogano e si ubriacano sono i maggiori responsabili degli incidenti stradali, perciò va tolta la patente agli anziani. A rischio di ripetermi, perché ogni tanto devo sfogarmi in qualche modo per evitare di esplodere, al di sopra degli umani destini, al di sopra di milioni di litri di grezzo che stanno distruggendo un oceano, al di sopra della Ryan Air, che pensa di incrementare i profitti facendo volare i passeggeri in piedi, legati come salami a una specie di palo della tortura, al di sopra dei contrappunti e delle antifone dei mass media, che danno rilievo o offuscano le notizie a seconda delle proprie divinità politiche, al di sopra della pubblicità televisiva, che ha sicuramente rincretinito diverse generazioni di giovani e meno giovani, al di sopra di un elenco di comici televisivi politicizzati, che, se fanno ridere, è solo per il modo irrimediabilmente idiota con il quale vorrebbero farci ridere, al di sopra di un elenco infinito di incomprensibili storture che hanno ormai acquisito il crisma della consuetudine, a rischio di ripetermi, dicevo, cerco un misero conforto, come essere cosciente, nella stessa domanda di sempre –In /che/cazzo/di/mondo/viviamo?- Ormai ci casco sempre più spesso. Mi incazzo. Al contrario, lo scopo di queste righe dovrebbe essere quello di intrattenermi nell’età matura, di aiutarmi a mettere a fuoco i ricordi. Ma, dopo tutto, anche le incazzature ne faranno parte. Sono quasi le 17,00 e anche Maradona è incazzato. Il fatto è che la Germania gli ha rifilato un goal dopo un paio di minuti, poi se ne è mangiati altri due o tre. Per il momento il rito del bacio a tutti i giocatori prima dell’inizio della partita non ha funzionato, ma non si sa mai. Potrebbe essere un bacio a effetto ritardato. Per la verità, negli ultimi minuti del primo tempo l’Argentina si è data una mossa, ma la porta di Neuer non ne ha risentito. Forse Maradona ripeterà il rito nello spogliatoio, durante l’intervallo, e riuscirà a interrompere il lungo digiuno di Messi. Al momento lo schermo della TV è preda degli stregoni del metacalcio. Ho preferito impiegare l’intervallo scrivendo due righe, tanto, per quanto possano blaterare, non cambieranno il risultato. Sospendo, perché credo che abbiano ricominciato a giocare. Quarantacinque minuti, poi torno a scrivere accompagnato dall’immagine di un Maradona affranto, con il rosario attorcigliato intorno a una mano, i folti capelli scuri e il viso ancora di più, entrambi in armato contrasto con l’irreprensibile barbetta sale e pepe. La Germania gliene ha rifilati quattro e non gli resta che procurarsi i biglietti per il rimpatrio. Lo sa che in patria stanno già affilando le penne, se non qualcosa di peggio. Al confronto, il rientro di Lippi sarà stato un festino. I commentatori televisivi hanno sfacciatamente tifato Argentina. Fino al terzo goal, poi l’hanno piantata lì. Che dire della Germania? Secondo me, ha il giusto potenziale. Se non fosse la Germania, la darei favorita. Purtroppo per loro, i tedeschi sono rosi da un tarlo molto pericoloso, la presunzione, Deutschland ueber alles e via di seguito, che li manda fuori di testa proprio nel momento della verità. Se riusciranno a neutralizzarlo, potrebbero mettere di nuovo le mani sulla coppa.

domenica 27 febbraio 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Martedì, 22 giugno 2010
Ieri mattina sono dovuto correre al pontile per vuotare la barca. C’era tanta acqua che quando sono salito quasi mi rovescio. Nottata di tregenda. Soffiava ancora vento freddo da ponente e continuava a scrosciare pioggia. Una pazza, tarda coda invernale. Stanotte non è piovuto, per fortuna, rigida la temperatura. Grossi cumuli scuri attorcigliati a vomitare le loro stesse budella (presa in prestito dal Dr. Faustus di Marlow). Però non piove. Alla televisione continua la sceneggiata Italia dentro - Italia fuori, con tutti i calcoli dei punteggi e delle possibilità che perda l’una o l’altra squadra del girone e come questo possa influire sulla permanenza o meno della squadra di Lippi. In quattro anni Lippi è invecchiato, non è più lo stesso, non si spazientisce e quasi presta attenzione alla stampa. Si limita a parlare di trappole, quelle che piazzano i giornalisti per creare malumori nello spogliatoio, ma gli manca il piglio di una volta, quell’occhiata insofferente e inequivocabile, perentorio invito a toglierti dalle scatole. Abbiamo ancora una possibilità di farcela. Tutto dipende dall’orgoglio dei nostri ragazzi e dalle condizioni di San Pirlo. Lippi lo sa e sa anche che dovrà tirar fuori un gran paio di palle. Sfigata, che altro dire della Grecia, costretta a giocarsi l’ultima chance contro i mostri argentini. Si era organizzata mica male, è riuscita a resistere per un tempo, poi sono prevalsi i diritti del più forte. Non che prevalgano sempre, vedasi quel che ci è successo con la Nuova Zelanda. L’Argentina però è stata in grado di farli prevalere e i greci sono tornati a casa. E dire che sono stati fra i primi, i greci, a organizzare manifestazioni sportive di massa, molti secoli prima dell’Avvento. Nella corsa, nel salto in lungo, nella lotta, nel pugilato, nel lancio del giavellotto, nel lancio del disco, nella gara dei carri da guerra e nel pentathlon, ogni sforzo era dedicato agli dei. I giochi erano sacri a tal punto che per le guerre, anche quelle più insignificanti, veniva chiamato il time out . Niente guerra, si fa sport. Poi sono arrivati i cristiani, che ritenevano intollerabile l’imparentamento di grandi eventi sportivi con il paganesimo. Così l’imperatore Teodosio, per farli contenti, ne ha decretato la fine. E’ raro sentire il nome di qualche greco al top dello sport internazionale, oggi. Potrebbero non essersi ancora abituati alla convivenza dello sport con la cristianità. Un’occhiata al giornale. Una donna è stata ricoverata in ospedale, priva di sensi, con lesioni da pugni e coltellate, sul collo pure i segni di un tentativo di strangolamento. Il marito, pizzicato mentre scappava in macchina, ha spiegato così le sue ragioni, testualmente: Non volevo ucciderla. Si è trattato di una lite nata dal mio tentativo di chiarire alcuni aspetti nell’ambito del rapporto di coppia. Chiarimenti esaurienti, senza dubbio. Pare che la spiegazione fosse accettabile, l’accusa è stata derubricata da tentato omicidio a lesioni gravi. A San Benedetto si riuniscono i big dell’editoria e del thriller. Dovrò scrivermi qualche titolo. Per i thriller ci vado matto. Sia a leggerli che a scriverli. Ultimamente avevo cominciato a scriverne uno per un concorso della Mondadori e per un bel po’ tutto è filato liscio, tanto che ritenevo di averne scritto più della metà. Poi mi sono fermato. Non parlo del blocco dello scrittore, della disperazione che ne consegue e di tentativi di suicidio alla Hemingway. Minuscoli tentativi, naturalmente, vista l’immensità del paragone. Molto più semplicemente, mi sono distratto con altre cose, altri interessi, e il mio thriller è ancora a metà. Me lo sono riletto, cercando di ricordarmi lo sviluppo della vicenda e il destino che avevo riservato ai vari personaggi. Purtroppo ero come disconnesso. Non sono abituato a buttar giù una scaletta, per poter riprendere a scrivere anche dopo un po’ di ozio. In realtà, è come se al tempo stesso fossi un lettore di quello che vengo scrivendo, perché in testa non ho che un’idea vaga del prosieguo e le situazioni mi si presentano quasi da sole. Quando rileggo è come se leggessi il lavoro di un altro. Penso che dovrò rileggerlo parecchie volte prima di poterci rimettere le mani. In sostanza, mi ritrovo con un commissario gourmet che ha una figlia adolescente, contestataria e rompicoglioni, con una prostituta decapitata cui è sparita la testa, un fotografo un po’ ingenuo che si è ficcato nei pasticci fino al collo, una prostituta russa amica della morta, pure nei guai, un paio di farabutti implicati nel contrabbando di bambini dall’Est, forse anche di organi, il tutto ambientato in una località dell’Italia centrale, con dislocamenti ambientali vari. Spero di rimetterci le mani presto. Ho una gran voglia di sapere come va a finire.

venerdì 25 febbraio 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Sabato, 18 giugno 2010
L’energia nucleare ci ammazza con le scorie, Internet è un settore operativo della criminalità, anche di quella minorile, la pubblicità televisiva è un tornado che sta spazzando via la dignità e ogni capacità critica e di autodeterminazione. Insomma, non ci sono più dubbi. Ogni scoperta epocale si porta dietro un carico di merda epocale. E’ solo una riflessione spicciola, che non serve a niente, tanto nessuno ci può far niente. Serve solo a incazzarsi, diritto inalienabile di chi è impotente nel constatare che l’umanità, se il mondo non finirà nel 2012, finirà comunque per affogare nella propria merda. In una società che ti spersonalizza e ti risucchia in un processo a ritroso fino all’inesistenza, incazzatura è anche consapevolezza della propria esistenza. Ai vari cogito, ergo sum o dubito, ergo sum descartiani, aggiungo, senza ombra di presunzione, mi incazzo, ergo sum. Sono di cattivo umore, è l’umore a indicare la strada ai pensieri, e se i miei sono impantanati nella merda è colpa di uno spot televisivo. Se ti vengono a dire che sei un troglodita, che appartieni alla preistoria e che devi deciderti a metterti al passo con i tempi scegliendo a occhi chiusi un certo prodotto trendy, è facile che ti incazzi, ancor più se di quel prodotto non ti è mai fregato niente, non ti frega niente e non ti fregherà mai niente. Un minimo di rispetto dico, per il libero arbitrio e una già molto risicata libertà di scelta. Insultare la gente sfacciatamente e impunemente pare sia permesso solo alla televisione. E ci paghiamo pure il canone. Personalmente, voglio essere libero di vestirmi di stracci, se mi va di farlo, di indossare scarpe vecchie e fuori moda, di andare a vedere pellicole che non piacciono a nessuno, di snobbare i film pseudointellettuali, di snobbare comizi politici contrabbandati per spettacoli teatrali, di aborrire ogni forma di idealismo, sia di quelli già presi a calci in culo dalla storia, sia di quelli attuali e alla moda, e si può capire cosa mi si scatena dentro se qualcuno mi insulta perché non faccio come dice lui. Esercitare il diritto di decidere non è neanche facile. E’ facile decidere se prendersi un caffè oppure un calcio sui denti, ma questa non è una decisione. Decidere vuol dire scegliere fra vari percorsi, che vengono offerti in alternativa l’uno all’atro, prevedendo, per tale scelta, un maggiore vantaggio o un minore svantaggio presente e futuro. Sembrerebbe facile, se non entrassero in gioco elementi come la fiducia, le probabilità, i valori personali e altro ancora. Ci sono decisioni apparentemente insignificanti, capaci di rovinarti le giornate. Sulla sinistra ci sono due strade laterali, una di seguito all’altra, per raggiungere il lungomare. Superi la prima perché hai scelto inconsciamente la seconda, senza neanche renderti conto che in quel momento stavi prendendo una decisione. Entri nella stradina e dopo trenta metri devi fermarti dietro un TIR irrimediabilmente incastrato fra due file di auto in sosta. Un paio di auto sono già ferme dietro di te e non c’è via di scampo. Si può quasi concludere che ogni decisione è un’esperienza di vita indispensabile. Più ci lascia insoddisfatti, più ci consente di imparare. Quanto agli stronzi che ti tacciano da troglodita perché non li lasci decidere per te, che se ne vadano tutti insieme in quel paese dove il sindaco era un amico dell’Albertone nazionale. Ho appena finito di vedere il match con la Nuova Zelanda. No comment. La pubblicità, poi subito Mazzocchi. Appare in grande spolvero e non gli basta la voce per commentare che l’Italia è stata inconcludente e che doveva fare di più e che adesso deve battere assolutamente la Slovacchia o siamo fuori. Stavolta non ha detto che sarà facile. Trenta secondi per arricchirmi di tali rivelazioni, poi ho spento. Beh, siamo in un guaio. Speriamo che Lippi si sia portato dietro un cilindro e un coniglietto. La stampa comincia a presentare il resoconto dei non ammessi agli esami di maturità. Fino a qualche anno fa il concetto di non ammesso era inesistente, ma lo era solo per crassa, supina e comoda ignoranza. Il concetto esisteva una volta, e come se esisteva, e allora la scuola italiana forniva gli elementi migliori a livello europeo e ben oltre. Poi è stato un succedersi di geni della didattica, della psicologia e del cambiamento, di inserimenti nelle classi di extracomunitari che non conoscevano una parola di italiano, il concetto di non ammesso è diventato quasi un reato di pensiero e la scuola italiana è sprofondata al terz’ultimo posto in Europa. Ritengo molto probabile che negli ultimi anni possiamo anche aver toccato il fondo. Nascosto fra le righe, nei resoconti dei giornali, si percepisce un senso di disapprovazione, le percentuali dei non ammessi ti vengono sbattute in faccia come dati inaccettabili, quei poveri ragazzi, solo perché non hanno studiato, non sono stati ammessi a sostenere l’esame. E’ tutto così scialbo. Pare che la società abbia definitivamente messo al bando il senso di responsabilità. Quella verso sé stessi, per cominciare. Quanto a quella verso gli altri, meglio lasciar perdere.

mercoledì 23 febbraio 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Giovedì, 17 giugno 2010
Sabato scorso, visita ad Assisi. Con un gruppo, tutto al femminile, a parte qualche marito, come me, cui era stato consentito di seguire le consorti, tutte membri di un’associazione che fornisce un qualche tipo di assistenza sociale nella zona. Levata alle cinque di mattina. Il guaio è che quando so di dovermi alzare molto presto non riesco a dormire, e a furia di girarmi e rigirarmi nel letto sono arrivato alle quattro. A quel punto ne ho avuto abbastanza e sono sceso in cucina a farmi un paio di caffè e fumare un paio di sigarette. Alle cinque ho sentito la sveglia che sconvolgeva i sogni di mia moglie. Di questa gita ricorderò un paio di cose. San Francesco in realtà si chiamava Giovanni, ma siccome già da piccolo parlicchiava il francese, appreso dalla madre, gli avevano attribuito un nomignolo che suonava come Frances o qualcosa del genere, completatosi poi nel nome che conosciamo. Nessun Francesco prima di lui. Tutti gli altri, protagonisti di glorie o di miserie, sono venuti dopo. Quanto alla seconda, mi sono soffermato a lungo davanti al saio del Santo (non saprei dire se fosse proprio un saio) e alla veste di Santa Chiara. Due stracci. Niente a che fare con le alte cariche ecclesiali. Era inclusa una gita in traghetto fino all’Isola Maggiore. Cinque minuti, forse dieci. Con mia moglie ci siamo addentrati nell’isola per una ventina di metri, fino ai tavoli di un bar. Gli altri hanno proseguito fino alla meta prevista, mi pare una villa. Si è alzato un vento forte e caldo e le acque del lago si sono increspate. Siamo ripartiti in orario. Il pilota ha manovrato all’indietro per staccarsi dall’imbarcadero poi è ripartito a razzo con una virata da off shore. Il guaio è che ha fatto male i calcoli. La poppa ha preso in pieno il pontile e a bordo c’è stato il terremoto. Alte le urla di una sfigata che si è ritrovata un sopracciglio spaccato da una gomitata. Siamo sbarcati e tutti in pullman alla ricerca della Guardia Medica. Poco più di un’ora, poi di nuovo sulla strada di casa. Un paio di giorni fa le insegnanti della Scuola materna hanno organizzato una manifestazione allo stadio. Una specie di spettacolo ginnico, si fa per dire. Bambini dai tre ai cinque anni, attenti, impegnati, ansiosi di far bene. Le magliette bianche si muovevano ordinate, contro il verde del prato, i gruppi assumevano forme diverse, come in un caleidoscopio. Ci ho messo un po’ di tempo, poi alla fine ho scorto i gemelli di mio figlio. Facevano la loro parte, come gli altri. Saltavano, si rotolavano, si infilavano in tunnel di cartapesta, ciascuno aspettando disciplinatamente il proprio turno. D’un tratto mi sono reso conto che stavo osservando l’aspetto più bello della razza umana, l’età in cui si può essere ancora innocenti ed entusiasti. E allora sono diventato spettatore attento, commosso, ma anche un po’ angosciato. Lo sappiamo tutti. I bambini sono condannati a crescere. Ma cambiamo argomento. Alle domande retoriche e prive di significato di Mazzocchi ormai sono abituato, ma il fatto che si continui a dare per scontate le vittorie dell’Italia su squadre di caratura inferiore rimane sempre un discorso da idioti. Mazzocchi e altri hanno la memoria corta. 1966, Corea del Sud – Italia 1-0. In tempi più recenti anche l’altra Corea ci ha sbattuti fuori dal Campionato del Mondo. Un arbitraggio scandaloso va incluso nelle possibili varianti e i giornalisti dovrebbero esserne al corrente. Di conseguenza viene da chiedersi perché ci godano ad aumentare la pressione nell’ambiente della nazionale. Le stronzate non fanno parte del diritto all’informazione. I neozelandesi sono gente tosta, avversari ostici nella vela, imbattibili nel rugby. Di certo non lasceranno il campo senza aver ammaccato qualcuno e speso fino all’ultimo millilitro di ossigeno. Il sospetto, se poi le cose vanno male e c’è da dire di più, da criticare di più e da recriminare all’infinito, è che la stampa e i media ci vadano a nozze. Un dieci a Lippi, che li ha ostentatamente ignorati nel 2006, quando non li ha mandati a quel paese andandosene nel mezzo di qualche intervista, e continua tuttora a non filarseli neanche di striscio. Delle immagini televisive di questo Campionato del Mondo sudafricano, comunque vadano le cose e quali che siano i risultati, rimarranno indelebili le lacrime di un giocatore schierato in campo con la propria squadra al suono dell’inno nazionale. In questo mondo di ordinaria indifferenza, mi scuso ancora per il calco, ma mi piace davvero tanto, c’è di che essere sconcertati. Il guaio è che è lo stesso sconcerto a generare sconcerto, perché se vivessimo invece in un mondo di ordinaria umanità, non proveremmo altro che una sana commozione. Ho scritto, più sopra, che i bambini sono condannati a crescere, ma dopo quelle lacrime è lecito supporre che anche per loro ogni tanto ci sia un indulto, o la solita amnistia.

martedì 15 febbraio 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Mercoledì, 16 giugno 2010
Dai giornali notizie sconvolgenti. Due pentiti lanciano siluri con notizie ad alto potenziale esplosivo contro due 007, includendoli fra gli organizzatori della strage di Capaci. Almeno così mi pare di aver capito, perché ad essere sincero non ricordo nemmeno bene se l’ho davvero letto o l’ho sentito alla TV, ma, a parte i dettagli, la sostanza non cambia. Con i siluri esplode la notizia che i due 007 sarebbero stati i supervisori dell’operazione. Non ci voglio credere, perché fin da piccolo mi hanno insegnato che ci sono i buoni e i cattivi e che bisogna sempre schierarsi dalla parete dei buoni e che i buoni devono sempre dare e seguire l’esempio edificante e che mai devono mescolarsi ai cattivi. Quello che trovo sconvolgente, si tratti del televisore o della carta stampata, è che certe notizie vengano comunicate con naturalezza, matter of fact, dicono gli inglesi, senza neanche far finta di piangere, o tradire sconcerto, come se la cosa rientrasse in un collaudato e ampiamente diffuso gioco di società. E allora, senza puntare il dito contro nessuno e al solo scopo di trovare sollievo per la confusione crescente che a volte mi fa sentire di non aderire più al suolo e fluttuare in una dimensione dell’ignoto, per l’ennesima volta mi rivolgo la domanda, scurrile ma di un qualche effetto liberatorio, In che cazzo di mondo viviamo? Di questi tempi la TV dedica ampi spazi al campionato del mondo, e negli intervalli tra il primo e il secondo tempo di una partita, gli opinionisti devono dire la loro. Riconosco che fra oceani di ripetitività e di secondo me o di per come la vedo io, si riesce anche a pescare qualche notizia curiosa. Molti sono convinti che il calcio, come sport, sia nato in Inghilterra, tanto che gli inglesi hanno snobbato i campionati del mondo per venti anni prima di decidersi a mettersi in gioco e scendere anche loro in campo, con risultati per lo più disastrosi. La notizia curiosa ha fatto seguito, nel corso di una discussione, a una improbabile attribuzione di paternità al Paraguay. Il calcio sarebbe nato in Romagna, al tempo dei Romani, quelli di lingua latina, e sarebbero stati proprio i Romani a portarlo in Gran Bretagna a corredo di un paio di invasioni. Dalla Gran Bretagna, nel corso di secoli, avrebbe poi fatto ritorno sul continente. A me è piaciuta. Per di più chi l’ha scodellata non era il pifferaio di turno e quasi mi ha convinto. Continuando sulla scia dei mondiali, pare che sia una necessità suprema quella di conoscere la formazione della nazionale prima dell’inizio di partita. Anche se mi ci dovessi scervellare, non riuscirei a capire il perché. Uno sportivo sano di mente dovrebbe sedersi davanti al televisore, magari con le patatine, i pop corn o perfino un corno portafortuna, aspettare che i giocatori entrino in campo e poi gioire se non imprecare per le scelte del mister. Che gusto c’è a conoscerle in anticipo? Invece, anticipare necesse. Pare, infatti, anzi, è cosa risaputa nei corridoi, che nel 2006, quando vincemmo, fu organizzato un servizio di spionaggio ai danni di Lippi, con l’introduzione di una talpa nello spogliatoio. Si trattava di un giocatore, di un accompagnatore, di un qualsiasi membro dello staff dei campioni del mondo? Sono i giornalisti a saperlo, ma non parlano, forse contano di ripetere l’operazione anche quest’anno. Ho visto Brasile – Corea del nord in TV, mi sarei divertito di più con la squadra della mia città, a distanze siderali perfino dalla serie B. Pronostici di goleada a non finire, ma il Brasile ha cominciato a giocare come una squadretta da oratorio, e certo non per vivacità ed entusiasmo. L’incaricato del commento tecnico si dannava l’anima perché il Brasile non segnava. I minuti passavano, il Brasile non segnava e lui continuava a dannarsi l’anima, suggerendo e recriminando. Per quei poveracci della Corea del Nord, che invece giocavano davvero con la vivacità e l’entusiasmo di una squadra di oratorio, nessun apprezzamento, come se si fossero presentati in campo solo per dar modo al Brasile di fare gol e dare spettacolo. Si tratta di un calciatore del passato, che da qualche tempo imperversa nelle trasmissioni sportive, che ho visto giocare e non mi è mai piaciuto più di tanto. Come commentatore tecnico mi è piaciuto anche meno. Voglio sperare che il suo commento non venga tradotto in coreano. Che possano usare la bomba come ritorsione mi pare esagerato, ma potrebbero sempre confezionarne una minuscola ad personam. Il calcio mi piace ancora, malgrado Calciopoli e il vortice di miliardi che continua a girarci intorno, perciò capita spesso che mi fermi a guardare una partita alla TV, più spesso una sintesi. Ma mi capita anche di saltare di palo in frasca e, proprio mentre guardo il match, volarmene con il pensiero da un’altra parte. Durante l’esecuzione dell’inno nazionale giapponese mi sono ricordato di una conferenza tenuta in un liceo scientifico dal direttore di un istituto musicale. Il tema riguardava i significati della musica e lui esordì dicendo che la musica è asemantica. All’epoca accettai la sua opinione con qualche riserva. Mano a mano, però, che ascoltavo l’inno nazionale giapponese mi convincevo che quel direttore aveva idee poco chiare. Ascoltavo e vedevo. Tanti occhi a mandorla, bellissime ragazze in kimono lavorati a mano, giardini percorsi da minuscoli corsi d’acqua, piante e fiori dai colori delicati, uomini e donne che si salutano con un inchino. Così vede il Giappone chi non ci è mai stato, naturalmente, non è che un quadro immaginario, forse anche anacronistico, ma ad evocarlo era la musica. Bene, comincia la sintesi della partita. Proprio quando comincia ad appassionarmi, c’è un’interruzione e dal televisore sbuca la faccia di un conduttore maleducato, con uno stereotipo di sorriso che di genuino non ha neppure i denti. Senza chiedere scusa o dare una spiegazione comincia imperterrito la propria trasmissione e addio partita. Meglio rifarsi con una buona notizia. I signori dell’energia hanno accettato di installare nelle case un doppio contatore, uno per le necessità della casa, l’altro per rifornire l’auto elettrica. Fantastico. Se ti si scarica la macchina per strada, puoi sempre bussare alla prima porta che incontri e chiedere se, per cortesia, non fossero mica disposti a farti infilare la spina.

sabato 12 febbraio 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Domenica, 6 giugno 2010
Purtroppo, ma anche per fortuna, in questo pazzo mondo tutto ha un principio e una fine. Ieri ho spostato l’albero e il tormentone con la vela è finito. In fondo, lo sapevo che mi stavo complicando l’esistenza solo perché non avevo voglia di spostare l’albero. Sapevo anche che una piccola fatica ti può risparmiare tante incazzature, ma pare che saperlo non basti. Pigrizia e testardaggine, insieme, possono convincerti che due più due faccia cinque, o anche tre. Forse anche il coro dei lamenti, dei perenni scontenti che protestano e ce l’hanno sempre con qualcuno scaturisce dall’indolenza e dall’ostinazione ad escludere il quattro, se il tre o il cinque costano meno fatica. Invece due più due fa sempre quattro, a meno che non si tratti di letteratura, parlo del Big Brother, quello di Orwell, dove gli attivisti di un partito torturano i dissidenti fin quando non si convincono che il risultato è davvero cinque. Capita di ignorare delle certezze, anche nella politica, per esempio. Dopo gli ultimi siluramenti dei leader di sinistra, Bersani sta predicando per ritrovare il principio dell’unità di partito, di cui certo conosceva l’importanza quando ha piazzato, con altri congiurati, una bomba sotto il culo di Veltrone. Non credo che Veltrone glielo abbia perdonato. Dall’altro versante, Fini continua a gorgheggiare dissenso malgrado il Cavaliere abbia scandito che si è stufato del controcanto. Il leit-motiv delle alleanze in politica è sempre lo stesso: Idillio, matrimonio, divorzio. A questo punto, se Veltrone si mette a remare contro, chissà che Bersani non stringa alleanza con i finiani. Niente è impossibile, in politica, ma, assicurano, sempre nell’interesse degli italiani. Purtroppo il concetto di italianità è contraddittorio. Prendiamo Briatore, per esempio, che, toccato nel profondo del suo senso patriottico dalla coraggiosa, ormai famosa frase –Guardate come muore un italiano-.elargisce un vitalizio alla madre di Quattrocchi, assassinato dagli islamici. Dopo l’ormai nota vicenda del sequestro del suo, o non suo, yacht, gli è scappato detto che si vergogna di essere italiano. Non c’è che dire, siamo contraddittori. Prendiamo Roma, dove i romani non si chiamano più Muzio Scevola o Attilio Regolo, parlo della capitale d’Italia, Bossi permettendo. Davanti ai maxischermi della finale Champions i romani si sono scoperti anche un po’ crucchi e hanno tifato Bayern. Incolpevoli reminiscenze di appartenenza al Sacro Romano Impero, in realtà più tedesco che romano, reminiscenze di invasioni dei popoli nordici, o dell’occupazione tedesca dopo l’8 settembre, chi più ne ha più ne metta, anche a costo di sfidare la logica, tutto questo in un difficile tentativo di perdono. Se invece hanno ignorato che l’Inter è squadra italiana, per il solo fatto che gli ha sfilato dalle mani Coppa Italia e campionato, allora il concetto di italianità potrebbe, in determinate occasioni, risultare, oltre che contraddittorio, anche vago. Capita di rado, ma a volte i politici fanno anche qualcosa di buono. Prendiamo una notizia di questi giorni, il decreto per dimezzare i fondi ai partiti. Peccato che con un altro decreto, nell’ambito dei tagli agli sprechi, non si possano dimezzare anche i partiti. Non si potrebbero dimezzare anche i giornali, visto che con questo diritto all’informazione hanno proprio rotto i coglioni? Chi la vuole l’informazione, se sempre più spesso si limita al pettegolezzo? Ma forse mi sono perso qualche battuta, è anche possibile che ormai il pettegolezzo sia diventato informazione e che abbiano ragione loro. E’ questione di saper educare il lettore. Non si era mai sentito il popolo, in Italia, appellarsi al presidente della repubblica per osteggiare una legge. Di certo qualcuno ha informato il popolo che le leggi non passano senza la firma del presidente, anche se non è proprio così. Da qui gli appelli, le grida, i manifesti per indurlo a non firmare. Nella furia di tale casino, naturalmente si parla delle intercettazioni, Napolitano non ha perso la testa e resta aggrappato a tre appigli sicuri. Garantire il diritto alle indagini, rispetto della privacy e libertà di stampa. Ma sono davvero sicuri? Indagini che rispettino la privacy sono un controsenso, perché non può esistere un’indagine senza violazione della privacy. Per quanto riguarda la stampa, quando mai ha rispettato la privacy? Tutta l’Italia conosce il culo della Merkel, fotografato a distanza durante il cambio del costume da bagno e divulgato sulla carta stampata in tutto il paese e forse anche all’estero. La privacy viene scrupolosamente rispettata dove più rompe le scatole al cittadino. Se chiedi un’informazione in un qualsiasi pubblico ufficio per tua figlia, che non può muoversi perché bloccata a letto con un’ingessatura che le impedisce perfino di parlare, dico, sei ammattito, c’è la privacy. Se vai a visitare un ammalato all’ospedale e chiedi in portineria dove si trovi, sei ammattito, c’è la privacy. Insomma, con la privacy ci sbatti la faccia dappertutto, tranne che sulla stampa. Mi è capitato di leggere una notizia sconvolgente. La Busi si dimette perché non si riconosce nel TG1. La prima reazione che mi viene in mente sarebbe E chi se ne frega! La seconda, invece, mi conferma la quotidiana presa per il culo. Che vuol dire che la Busi non si riconosce nel TG1? Che al TG1 vengano sottratte notizie oppure che le stesse vengano manipolate e che la manipolazione, nel caso in oggetto, non sia di gradimento della Busi, che ne gradirebbe una diversa, più in linea con le proprie credenze e divinità. Con tutto il rispetto che davvero lei merita, signor Presidente, le auguro di venire fuori tutto intero da questo pasticcio

martedì 8 febbraio 2011

diario di un qualsiasi nessuno

Martedì, 1° giugno 2010
Ci sono voluti milleseicento anni, ma pare proprio che agli inglesi sia venuta nostalgia dell’antica Roma. Credo di aver già scritto di una cittadina dove gli abitanti sono disposti ad autotassarsi per dissotterrare un teatro romano, che pare sia immenso, almeno quanto il Colosseo, ma anche a livello ufficiale si fanno le cose in grande. C’è di mezzo il British Museum, un fiorire di opere letterarie e dibattiti alla televisione, più una spettacolare fiaccolata lungo le rovine del Vallo di Adriano, per centoventi chilometri. Dico, centoventi chilometri di fiaccole. E’ difficile credere che gli inglesi possano sentirsi in debito con qualcuno, in questo caso con la civiltà Romana, ma senza dubbio ne hanno ricevuto un notevole spintone per uscire dal disordine civile e dalle lotte tribali e ad acquisire quel caparbio senso di nazionalità che li avvolge tutti come una seconda pelle. Se Bush avesse attinto alla storia antica, si sarebbe risparmiato tanti guai. La civiltà si può esportare, la democrazia, no. Oggi soffiava una Scirocco robusto e ho provato la vela per almeno quattro ore, senza risultato. L’ho alzata e abbassata sull’albero, allungata e accorciata sul pennone, le ho mandato una selva di accidenti. Niente bolina. E’ solo una stronza vanesia che infonde speranza e rifila bidoni. Dovrò trovare il modo di arretrare l’albero, ma ormai se ne riparlerà fra qualche giorno. Per domani e dopodomani è previsto l’ombrello. Dovrebbe esistere un altro tipo di ombrello, molto più grande e resistente, che ci protegga dalle notizie di cronaca che ci piovono addosso come una grandine continua e inarrestabile. Abbiamo il progresso, abbiamo Internet, Facebook, Youtube, l’orizzonte della comunicazione è solo un ricordo, abbiamo Skype, condividiamo momenti di intimità con amici, spesso con le nostre stesse famiglie dall’altra parte del mondo, quasi tutte le informazioni che ci servono le troviamo sul web, ma allora, se non è una condanna per un peccato originale che probabilmente non ci è stato del tutto perdonato, cos’è che costringe questa esecrabile razza umana a smerdare tutto quanto di buono, di veramente utile, di incredibilmente ingegnoso riesce a produrre? Non parliamo dell’energia nucleare o ci balzano alla mente Hiroshima e Nagasaki, non parliamo dell’energia degli idrocarburi, che è come parlare di guerre e stragi senza fine, che ci fa venire la pelle d’oca al pensiero di quei poveri disgraziati in Louisiana, e non solo loro, che stanno per essere sommersi da una marea nera, viscida e distruttiva, che la BP, dopo averla scatenata, pare per una leggerezza nei controlli, non ha ancora la più pallida idea di come arrestare. Ormai ci hanno abituati a pensare in grande, in modo globale, ma fanno ugualmente paura le migliaia di barili di quella viscida massa nera stanno annientando ogni forma di vita sottomarina e minacciando la sopravvivenza della razza umana. C’è da chiedersi se non ci sia un virus che si insedia nel nostro cervello insieme al primo spermatozoo che riesce ad aprirsi un varco e a penetrare nell’ovulo. Il malessere, dunque, prodotto dal virus, funzionerebbe all’incirca come quello sofferto dal mitico re della Frigia, che aveva ottenuto dagli dei il dono di tramutare in oro tutto ciò che toccava, senza rendersi conto che tale potere gli avrebbe perfino impedito di cibarsi per sopravvivere. In parallelo, il virus degli umani avrebbe il potere di tramutare in merda tutto ciò che passa loro per le mani, si tratti pure di scoperte o invenzioni epocali. Quando re Mida si rese conto che con l’avidità, insita nel suo desiderio, si era guadagnato una maledizione, chiese perdono ad Apollo e ne fu liberato. Per quanto ci riguarda, purtroppo, non abbiamo un Apollo a cui chiedere perdono. Se il virus si insedia nel nostro cervello già prima della nascita, non abbiamo colpe, se non quella di volerlo ignorare e non darci da fare convulsamente per attenuarne gli effetti. Lo studio del virus dovrebbe essere la prima preoccupazione dell’umanità ad ogni latitudine, con la segnalazione di ogni sintomo fin dalla tenera età. Si dovrebbe cercare di capire meglio, senza trovare appoggio in scuse alla moda, perché un ragazzo di diciassette anni fa uso di Facebook per annunciare di avere schifo della vita e chiedere di essere ricordato dopo il suicidio, o il motivo per cui un quattordicenne senta il bisogno di fare uso di face book per mettere alla berlina un’insegnante e poco dopo si getti dal quarto piano per non dover fare fronte ai richiami del preside e ai rimproveri dei genitori. Come si potrebbe tentare di combattere le deviazioni indotte dal sospetto virus nei giovanissimi, quelli che, in caso di sopravvivenza, potrebbero anche diventare alti dirigenti di multinazionali come la BP? Un paio di idee ce le avrei ma è solo un suggerimento. Il primo passo potrebbe essere quello di impiccare i buonisti, tutti, dal primo all’ultimo, a qualsiasi latitudine e di ogni nazionalità. Forse impiccarli sarebbe esagerato. Basterebbe relegarli in una qualche isola dei famosi, in competizione per il cibo, l’acqua e un riparo per la notte, per dar loro il modo di scoprire quanto sono buoni davvero. Il secondo, introdurre in ogni scuola una nuova materia, molto più importante della matematica, delle lingue straniere e di ogni altra, da seguire dalla prima elementare all’ultimo anno di università, con obbligo di corsi di specializzazione post-lauream. Fondata sul principio che ogni nostra azione ha effetto prima su noi stessi, poi, inevitabilmente, su ciò che ci circonda, si potrebbe chiamarla Il senso di responsabilità verso sé stessi e verso gli altri. Questo, se l’espressione “senso di responsabilità” avesse ancora un senso