lunedì 30 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Lunedì, 22 marzo 2010. Piove. A volte il cervello funziona come un computer, pronunciare o scrivere una parola è come premere un tasto e aprire una finestra. A me succede, per esempio, con piove. Nella schermata compare una poesia. Non ricordo quando l’ho studiata, ma certamente andavo in giro con i pantaloncini corti, anche d’inverno, e mi cavavo ancora i denti da latte con il filo da cucito. Un paio di volte anche a scuola. In quelle due occasioni frequentavo la scuola media ed è facile risalire all’età, anno più, anno meno. Nella schermata appare una poesia, chissà come si chiamava il poeta, ma cominciava proprio con Piove, e non ne ricordo che pochi versi. Piove, e laggiù sulla via/si sente l’intima malinconia/di quella pioggia che cade./ Piove da un’ora soltanto,/ ma il bimbo pensa/che già piova da tanto,/da tanto, sopra la grande città. In un altro punto dice che lo scroscio si sente giungere dalle vetrate/che versan lacrime lente/come fanciulle imbronciate. Non ricordo la datazione, ma è molto vecchia e certo si riferiva a un’altra pioggia. Difficile credere che quella di oggi possa risvegliare, cadendo, un’intima malinconia. Sarà perché è piena di acidi, forse anche un po’ di radiazioni, e la prima cosa che ti viene in mente è di cambiare l’acqua al cane, se tieni la ciotola all’aperto, o ti muore avvelenato. Di sicuro il disboscamento e l’edilizia abusiva erano in uno stadio primordiale e quando pioveva non crollavano intere colline, seppellendo case e cristiani. Poi c’è da chiarire la faccenda del bimbo. Quanti anni poteva avere? Per provare un’intima malinconia doveva averne almeno dieci o dodici. E oggi, si è ancora bimbi a quell’età? Meglio scendere a sei anni, sette al massimo, perché a dodici si è già contaminati. Non bisogna dimenticare che intorno a loro si agita uno stronzo mondo di adulti e che crescono all’ombra di giocattoli supertecnologici, delle play station, dei cellulari multifunzione e non so di che altro ancora. E’ anche probabile che di questi tempi un’intima malinconia possa venire scambiata per una psicosi e destare gravi inquietudini. Conclusione? Non era solo la pioggia ad essere diversa. Divagazioni. Riflessioni. Raro che siano incoraggianti. Comunque, poco male se oggi piove. Alle dieci e mezzo ho appuntamento dal dentista, orario disgraziato che manda la mattinata a puttane. Poi dovrò anche occuparmi dello specchietto retrovisore della macchina. E’ proprio quella che di solito usa mia moglie. La preferisce per via della retromarcia meno impegnativa. Decido di andarci quando apre, di coglierlo di sorpresa e di convincerlo a metterci le mani subito. Mia moglie però vorrebbe essere più sicura, accertarsi di non fare un viaggio a vuoto avvertendolo con una telefonata. La accontento e prendo appuntamento con il carrozziere per le due del pomeriggio. Cioè, lui apre alle due e mezzo, ma io posso lasciargli la macchina alle due, davanti alla carrozzeria. Le chiavi nella cassetta della posta. Dal tono mi è sembrato di capire che ha intenzione di farla subito. Poi ascolteremo il verdetto, ma so per certo che sarà salato. Fanculo i soldi. Speriamo almeno che la faccia davvero per stasera. Con una sola macchina facciamo fatica a muoverci. E’ incredibile che ci sia stato un tempo in cui in famiglia ci si spostava su un paio di biciclette, una da uomo e una da donna, o anche su una sola, da donna, perché andava bene per tutti, e che era già fortunato chi poteva permettersi uno di quei motorini da applicare alla bici e viaggiare rilassato a una ventina di chilometri l’ora, e non è difficile collegare il tutto ad altri cambiamenti del genere e al fatto che oggi i fottuti soldi non bastano mai. Il modello consumistico non fa sconti. Se non lavori, non mangi, ma se non consumi, non lavori. Un caso raro, in cui due più due fa quattro. Oggi sono andato a farmi otturare un dente. Aveva una carie nascosta, ma non c’è voluto molto. Anzi, il tempo avanzato è servito a farmi estrarre anche un dente del giudizio che dondolava come una campana e stava lì da un paio d’anni a vivere da parassita. Verso le quattro è finito l’effetto dell’anestesia ed è stato il momento della verità. Me la sono cavata applicando alla guancia un pacco di surgelati che ho tirato fuori dal freezer. Più tardi sono perfino riuscito a mangiare qualcosa. Una torta, per la verità, niente da masticare. Alle sei ho richiamato l’amico carrozziere. Della mia telefonata non ricordava un cazzo, è andato subito a vedere la macchina ed è tornato come un fulmine per dirmi che non c’era niente da fare. Tranne spendere un capitale per sostituire tutto il blocco dello specchietto. Mia moglie ha assistito alla telefonata senza fare commenti. Era solo incazzata. Mai fidarsi dei programmi, comincia a impararlo anche lei. Speriamo di potercela riprendere per domani sera. La prova del pennone e della vela è rimandata a posdomani. E’ piovuto tutto il giorno, per fortuna senza scrosci, comunque domattina si va a sgottare.

domenica 29 agosto 2010

Domenica, 21 marzo 2010
La domenica dovrebbe portare con sé il riposo, soprattutto quello del cervello, delle coronarie, insomma, di tutto quel sistema che durante la settimana ci logora i nervi, responsabile di uno stress che giorno dopo giorno si fa più aggressivo e pericoloso e pare abbia deciso di ammazzarci tutti. Invece la prima incazzatura è arrivata a colazione, quando per disgrazia ho acceso il televisore. Si parlava del famigerato Omar, di solito accoppiato ad Erika per aver commesso a sangue freddo due omicidi agghiaccianti, della soddisfazione generale nel vederlo di nuovo in libertà dopo aver scontato nove anni, e neanche tutti in carcere, invece dei quattordici che gli erano stato comminati, del fatto che era cambiato, che aveva portato a termine i suoi studi e che aveva deciso di ricominciare daccapo. A diciassette anni, solo un anno prima della maggiore età, questo bravo ragazzo, in compagnia di un’altra assassina come e forse anche peggio di lui, aveva accoltellato e ucciso a sangue freddo una povera donna la cui sola colpa era stata di aver partorito una criminale. Il numero esorbitante delle coltellate, all’incirca una settantina, testimoniava con quanta ferocia si erano accaniti sulla poveretta. Il fratellino di lei si stava preparando per il bagno, era stato attirato dal rumore e aveva assistito allo scempio. Erika e Omar, li ho sentiti sempre chiamare con i rispettivi nomi di battesimo, quasi con simpatia e familiarità, come fossero i protagonisti di un reality in prima serata, non hanno avuto tentennamenti. Prima hanno cercato di affogarlo, senza riuscirci, poi gli hanno rifilato cinquantasette coltellate, cinquantasette. Poi, freddamente, hanno accusato gli albanesi, scatenando un putiferio di indagini e di ricerche, che però hanno portato al loro arresto. Non so voi, ma il solo riepilogo della vicenda mi fa venire il mal di stomaco, intendiamoci, non è il solito modo di dire, mi viene realmente da vomitare. Adesso quei due rifiuti si sono fatti persone per bene, hanno studiato, imparato, e ricominceranno daccapo, meritano una seconda occasione. Tutti meritano una seconda occasione, tranne la madre di Erika e il fratellino di quattro anni, ammazzati come bestie, ma che dico, nessuno ammazzerebbe una bestia con settanta coltellate. Senza contare il coro di indignazione degli animalisti che si leverebbe al cielo fino agli strati più alti dell’atmosfera e oltre il buco dell’ozono. Oggi chi muore ammazzato entra nelle statistiche, il suo nome viene semplicemente cancellato dalle liste dei vivi e la vita continua. Sarà per effetto dei videogames, dove si impara ad ammazzare figure umane premendo un tasto. Solo gli avvoltoi televisivi le tengono in considerazione, le vittime, secondo una particolare classifica di gradimento, le riesumano come protagoniste di gialli, sbattono sullo schermo testimoni ed esperti, elencano prove e controprove, ripercorrono l’itinerario delle indagini, fanno di una audience un popolo di detective. Giallo, è la parola ricorrente per riferirsi a un omicidio non ancora risolto. Non badano al fatto che il giallo appartiene alla fiction, all’immaginazione, mentre gli omicidi sono reali, la gente viene ammazzata sul serio e va a finire sotto terra. Tutto quello che esce dal piccolo schermo è spettacolo, mira all’audience, morti veri e morti finti si accavallano, si confondono gli uni con gli altri, obnubilano la mente dello spettatore e gli impediscono di distinguere tra i morti che risuscitano nella prossima fiction e quelli che vengono messi a decomporsi in una bara. Credo che sia già tardi per arrestare la confusione che dilaga sovrana, ma vorrei rivolgere un pensiero alle due vittime di questa vicenda, completamente dimenticate, e citare alcuni versi del Foscolo per la morte del fratellino, che potrebbero anche riferirsi al fratellino di Erika, assassinato a quattro anni e da dieci ormai nella fossa. Non vanno letti di fretta, va soppesata ogni parola. Sei ne la terra fredda/sei ne la terra negra/né il sol più ti rallegra/né ti risveglia amor. Se sono scivolato nel tono didattico, devo essermi incazzato sul serio. Il buonismo e la TV sono le più grandi catastrofi abbattutesi sul genere umano, dopo il diluvio universale e prima dell’Apocalisse, e siamo costretti a conviverci come niente fosse. Anche oggi, nessun lavoro alla vela. Si è rotto lo specchietto della macchina, quella con il portabagagli, e non ho potuto portare il pennone sulla spiaggia. Fine della narrazione.

venerdì 27 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Venerdì, 19 marzo 2010
Alla scuola media, quando ero impegnato in certi esercizi di matematica, non vedevo l’ora di poter scrivere la sigla cv.d., con tutto il sollievo che ne derivava. Come volevasi dimostrare, punto e fine dell’esercizio. Il c.v.d. di oggi riguarda l’aggettivo famous che precede last words. Perché le ultime parole restano famose? Perché esprimono promesse mai mantenute. Come volevasi dimostrare, infatti, stamattina sono stato impegnato con mia moglie e della barca mi sono perfino dimenticato. Ho cercato di recuperare nel pomeriggio, ricurvo a novanta gradi sotto il basso terrazzo sul giardino, dove sono accatastati residui di tanti anni di vela spartana, remi spaiati, mezzi timoni, cime, pennoni, vecchi alberi di legno e alluminio, vecchie vele e fiocchi, paioli disastrati e quant’altro di vecchio si possa immaginare. Ho sfilato un pennone dal mucchio, quattro metri e trenta, e l’ho misurato con il lato più lungo del telone. Sapevo già che era di cinque metri, perciò avrei dovuto tagliarne una buona parte. Ho ripiegato il telone in basso e sulla diagonale, secondo le misure, e grossomodo è venuta fuori la vela, cioè un’idea della vela. Tutto sommato, poteva anche andare, avrebbe preso vento a sufficienza. Però sarebbe stato come andare in bicicletta, mentre, impiegandola per tutta l’altezza, mi sarei avvicinato a una moto. Cambiare il pennone, ce ne vuole uno una sessantina di centimetri più lungo. Di nuovo piegato come una squadra sotto il terrazzo, individuo un lungo tubo di metallo che a suo tempo avevo già usato come pennone, molto impropriamente, devo aggiungere, perché non aveva resistito allo sforzo e si era curvato. L’ho raddrizzato, l’ho misurato con il lato del telone e vanno d’accordo come culo e camicia. Per un paio di prove andrà bene. Poi mi sono accorto che gli occhielli sul lato del telone erano troppo distanti. Tentazione immediata di rimandare a domani. Per una strana forza d’inerzia accartoccio invece il telone in macchina e lo porto a una parente che ha un negozio di lingerie, dove vendono pure ago e filo, nastri e articoli del genere e hanno pure una macchinetta per gli occhielli. Ci trovo una ragazza che mi aiuta con fatica a districare il telone e a trovare il lato giusto. Mi aspettavo che mi mandasse a quel paese, invece mi dice di ripassare in serata. Per oggi, non c’è altro che possa fare. Se ne riparla domani. Prima di risalire in macchina, ho incontrato due ragazzi. Ho insegnato a entrambi, erano nella stessa classe e ora sono negli stessi guai. Si sono sposati. Mi hanno parlato dell’Etiopia, in particolare di Lalibela, una città santa che gli etiopi hanno costruito sulle montagne. Non adesso, naturalmente, anche molto prima che gli italiani andassero a rompere i coglioni a quella gente, che combatteva con le lance contro fucili e mitragliatrici. Per ogni nostro soldato che cadeva, loro ne perdevano dieci. Malgrado ciò, non si sono mai arresi. Sarò un codardo ignorante, ma non mi sono mai sognato di andare in Africa, un po’ per paura dei terroristi islamici, un po’ per non fare la fine di Coppi, che dopo tanta gloria è morto per la puntura di un insetto, e un po’ anche sconsigliato da Hemingway, quando scriveva che andava a caccia con le zanzare che gli ronzavano fin dentro le mutande. Lo so che mi perdo un mondo fantastico, ma ognuno ha il diritto di vivere come e dove gli pare. Quei due ragazzi erano tanto entusiasti di raccontare, che sono riuscito a dimenticare il mio Mal d’Africa a rovescio e sono rimasto ad ascoltarli. Mi ha colpito il fatto che Lalibea sia stata una delle prime roccaforti del Cristianesimo, dico, parliamo del tredicesimo secolo, e non so quanta gente l’abbia mai sentita nominare. Le chiese non sono state costruite elevandole dal suolo verso il cielo. Al contrario, sono state scolpite nel tufo a partire dal tetto. Una volta terminato l’esterno, una sorta di immensa scultura architettonica, è stato scavato l’interno. Insomma, ogni chiesa è un monolite. Malgrado i cristiani del luogo siano copti, i due giovani sposi hanno voluto assistere a una messa. All’ingresso hanno ricevuto un bastone. L’hanno preso, chiedendosi cosa avessero dovuto farne, poi si sono accorti che tutti i fedeli ne avevano uno. Il perché del bastone lo hanno capito tre ore dopo, quando la messa non era ancora finita e da un pezzo avevano notato che non c’erano panche né sedie. Li ho salutati con una gran voglia di farci un salto, a Lalibea. Malauguratamente si trova in Etiopia e l’Etiopia sta in Africa e in Africa ci sono le zanzare che ti ronzano nelle mutande e arrivano a pizzicarti le palle.

Diario di un qualsiasi nessuno

Giovedì, 18 marzo 2010. Ci siamo. Alle quattro del pomeriggio ecografia al poliambulatorio e forse finirà l’itinerario del male. Male da virus, naturalmente. Quello da cui non riesco a guarire e non so quando ci riuscirò è l’ansia da computer. Sto facendo qualche piccolo progresso, ma avrei bisogno di un buon manuale, magari di quello per imbranati, ce n’è uno che si chiama così, ma non riesco a trovarlo. Ne ho trovato qualcuno, ma erano per Windows Vista o per Windows 7, di quelli per il mio Windows xp si sono perse le tracce. Per fortuna ho imparato a far funzionare un programma musicale che attenua pericolosi impulsi, dei quali il più ricorrente è quello di consumare una sporca vendetta contro questo scatolone sussiegoso, pieno di fili e congegni elettronici, e sbatterlo contro il muro. In questo momento sto ascoltando i gorgheggi di un’ottima tromba, che si cimenta in brani classici e d’opera e mi libera la mente da input autolesionistici. Ho sistemato la documentazione per avere il permesso d’ingresso al porto, marca da bollo € 14,62, non manca molto che dovremo applicarcela anche dietro il culo ad ogni evacuazione, sono andato in banca a fare provvista per il solito salasso annuale di socio della LNI e utente del pontile di attracco, è arrivato il tecnico della TV e mi ha fatto un preventivo di duecentocinquanta euro per riparare l’antenna, senza neppure sapermi dire se dopo la riparazione il Canale 5 smetterà di trasmettere tanti di fiocchi di neve, ho controllato nel portafoglio che ci sia il denaro per pagare il ticket per l’ecografia, ho comprato il tabacco, le cartine, filtri e bocchini, mi sento nei panni di…come si chiama?, quel comico che fa uno spot con la Incontrada e pare voglia imitare Briatore gettando via bigliettoni come carta straccia. A proposito, carina, Vanessa!, ma questo è un altro discorso. Come al solito, all’ASL non è andata liscia. Sono entrato alle tre e mezzo, l’appuntamento era per le quattro, e ho preso il mio numero di prenotazione. Numero sette. Sul display c’era il numero uno. Un solo impiegato allo sportello. Dopo mezz’ora, il numero tre. Quando il giro delle palle si è fatto vorticoso, mi sono avvicinato e ho chiesto di poter pagare il ticket dopo la visita, se no facevo tardi. Il giovanotto deve essersi sentito in colpa, perché ha subito acconsentito. Poi non ci sono più stati inghippi. Poco ci manca che il radiologo mi chieda che cazzo ci sono andato a fare. Per quanto cercasse, non gli riusciva di rintracciare linfonodi sospetti, tanto che alla fine li ha cercati perfino con le dita. Non ce n’erano. Quando sono andato a pagare il ticket, si era formata una lunga fila e allo sportello, sempre l’unico funzionante, operava lo stesso impiegato. Figurarsi se potevo aver voglia di riprendere il numero e aspettare il mio turno. Sono andato direttamente allo sportello, fornendo sommarie spiegazioni ai più vicini e ignorando gli accidenti dei più lontani e ho chiuso la pratica. Domani mattina vado dalla doc sperando di aver dato abbastanza, in fatto di malattie, almeno per tutto il 2010. Tocchiamo ferro, siamo italiani. Gli inglesi, invece, toccano legno. Se ne imparano di cose, girando per il mondo. Mi sono tanto disabituato all’attività fisica, in questo lungo periodo di inerzia, che muscoli, nervi, tendini e tutto quanto delegato al movimento delle braccia, delle gambe e di tutto il resto del corpo sembrano essersi scollegati dal cervello. Domani mattina alzati presto, dice il cervello, prima che si levi il vento, porta la barca a terra e gratta via quel mezzo quintale di vegetazione tutt’altro che lussureggiante sotto la carena. Me lo ha detto anche ieri sera, ma stamattina mi sono alzato alle nove e avevo ancora sonno. Poi mi dice che è tempo di provare la vela latina, che per poterla provare bisogna prima tagliarla e che è meglio andare a farlo sul posto, prendendo le misure direttamente dalla barca. Anche questo mi ha detto ieri sera, ma a dargli retta non ci pensavo nemmeno, trovavo perfino insopportabile il peso del mio corpo. Forse sto esagerando ma la verità è che non riesco più a muovere il culo. Può darsi che sia stato in apprensione per questa benedetta ecografia, con i linfonodi non si scherza, quando ci sono, ed è anche possibile che fino alle quattro di oggi abbia avuto il latte alle ginocchia. Visto che adesso è quasi ora di cena, che i linfonodi non ci sono e la tensione, se c’è stata, appartiene al passato, non ho più scuse. Domani taglio la vela latina. Sul posto. E non mi si dica che si tratta delle solite famous last words.

mercoledì 25 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Lunedì, 16 marzo 2010. Stanotte mi sono sognato Di Pietro a capo di un manipolo di Valoristi, meglio evitare desinenze compromettenti e cambiare con Valorosi, che imponeva a Bossi e Berlusconi di scolarsi un boccione di purga a testa. Memore della vicenda di Enrico IV che rinunciava a sconvenienti deviazioni religiose in cambio del trono di Francia con la storica frase Parigi val bene una messa! , Bossi affrontava il martirio gridando, con un riferimento che non calzava proprio alla perfezione, La Padania val bene una purga! Gridava come poteva, poveraccio, da quando l’ha colpito il coccolone non è più capace di grandi prestazioni vocali. Berlusconi, da parte sua, spinto a tracannare senza riprendere fiato, provava ogni tanto a togliersi di bocca il collo del bottiglione, ma non faceva in tempo a dire Mi consenta! che glielo ficcavano di nuovo fra i denti. Non si fanno le leggi ad personam!, gli sbraitava contro Di Pietro, e tu lo hai fatto: Confessa! Anche volendo, il Berlusca non poteva proprio accontentarlo, con il collo del boccione che gli arrivava in gola. Confessa! continuava a ripetere Di Pietro, talmente fuori di sé da non rendersi conto che il poveraccio rischiava di morire soffocato e non sarebbe riuscito a pronunciare una sola sillaba. Ma Di Pietro è un giudice, si è studiato le procedure di tutti i tribunali, presenti e passati, e conosce l’importanza di una confessione. Forse aveva bisogno di una confessione per poter esercitare un atto di clemenza. Perfino i tribunali della Santa Inquisizione accordavano clemenza agli eretici che si confessavano colpevoli e si pentivano di aver osato criticare l’Istituzione ecclesiastica. Infatti i non pentiti venivano bruciati vivi. Ai rei confessi, invece, prima di essere gettati sul rogo veniva mozzata la testa. Si dice che i sogni sono determinati da fatti accaduti il giorno avanti o da preoccupazioni per il giorno dopo e, per quanto mi sforzi, non riesco a ricordare che cosa possa essermi capitato ieri per farmi sognare anche la Gelmini. In costume da befana, volava da una casa all’altra e invece di cenere e carbone metteva nelle calze dei cattivi tanti cinque in condotta. Un gruppetto di presidi buonisti la seguiva di nascosto, per entrare anche loro nelle case e sostituire i cinque con biglietti per viaggi organizzati di penitenti a Medjugorje. Redenzione, invece di Delitto e castigo. Saranno le vicende politiche di questi giorni, sarà il gran casino che riescono a tirarci fuori i media, ma ho una gran paura che senza un sostegno neuropsicopoliticoimmunologico (se no a che serve leggere riviste nella sala d’attesa del dentista?) presto ci si incasineranno anche i sogni. Sarebbe un grosso guaio perché il sonno non sarebbe più, per dirla con Macbeth, il balsamo della quotidiana fatica, ma aggiungerebbe stress notturno a stress quotidiano. Per fortuna a far da contrappeso c’è la barca a vela. Basta solo il pensiero. Nel pomeriggio ho approfittato del sole e della temperatura decente per concludere i lavori indispensabili alla prima prova. Ancora un po’ di pazienza. Il diciotto e l’ecografia sono a un tiro di schioppo e il referto renderà ufficiale il fatto che quei due linfonodi non hanno intenzione di rompere i coglioni. Proprio come sostiene il sottoscritto, che presso la doc gode di credito zero. Devo ancora ritagliare dal telone la vela di prova, ma è questione di poco. Presto saprò se funziona. Oggi ho visto il mio amico pittore. Non è facile incontrarlo, vista la sua esistenza itinerante fra Francia, Germania, Svezia e Italia. Avrei voluto prendere accordi per provare insieme la barca, ma ero in macchina con mia moglie e avevamo da fare. Aveva in testa un cappellaccio calcato sulla fronte e una barba che gli arrivava alla cintola. Un vero artista. Mi piacciono i veri artisti, perché sono davvero liberi e se ne fregano, ma se ne fregano davvero di opinioni e opinionisti. Appartengono alle loro opere, come i colori appartengono alle loro tele. A pranzo ho visto una madre alla TV, che riteneva che la figlia di dodici anni dovesse frequentare un baby beauty center. Le materie, in tali centri, riguardano il trucco al viso, lo smalto alle unghie, l’altezza dei tacchi, le creme di bellezza e forse, chissà, anche il lifting e la liposuzione. Il motivo addotto è che l’apparenza, di questi giorni, la fa da padrona. L’involucro fa sberleffi al contenuto e se non ci si adegua, sono derisioni e insulti. Allora è il livello della griffe che stabilisce quanto vali. Figuriamoci se non vesti griffato. Ma chi erano quei deficienti che si sono tramandati ai posteri per aver sostenuto che l’apparenza inganna, l’abito non fa il monaco, non è tutto oro quello che riluce?

venerdì 13 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Lunedì, 15 marzo 2010
Neuropsicoendocrinoimmunologia. Lo so che è difficile da credere, mo ho incontrato questo mostro sfogliando una rivista femminile, aspettando il mio turno nella sala d’attesa dell’odontoiatra. Mi ha fatto impressione. Basterebbe inserire una decina di tali termini nei programmi di italiano per extracomunitari che aspirano alla cittadinanza per costringerli a una fuga disperata. Frequentando un corso di tedesco al Deutsch Institut fuer Auslaender di Amburgo, ricordo quanto mi facessero incazzare le parole composte anche di quattro o cinque vocaboli giustapposti. Per capire quei mostri occorreva conoscere il significato di ciascuno di quei vocaboli. Siccome ero al mio primo mese di tedesco, non ero ancora pronto per simili esegesi. Così me la pigliavo pure con i tedeschi, perché con una lingua tanto strampalata mi complicavano la vita. E’ passato qualche anno ma, dopo l’incontro con neuropsicoendocrinoimmunologia, forse sono ancora in tempo per fare ammenda e scusarmi con il popolo tedesco per tutte le volte che, scontrandomi con tali paroloni, mi è scappata una parolaccia che di certo non avrebbero gradito. Il fatto è che certi convogli di vocaboli non li avevo mai incontrati. Tutto cambia, le lingue cambiano, certe diventano addirittura più facili, in Inglese, per esempio, certe regole diventano mano a mano obsolete, per la gioia degli studenti, naturalmente, i congiuntivi italiani stanno opponendo strenua resistenza agli attacchi dei talk show, di tanta gente cui è sconsideratamente consentito di apparire in televisione, non solo, ma anche di parlare in televisione, di modernisti ad ogni costo, di scrittori e giornalisti apostati, di tutti coloro che rifiutano il difficile perché il facile è più facile. Ripensandoci, il termine neuropsicoendocrinoimmunologia appartiene a un linguaggio medico specialistico che non è necessario divulgare al popolo e mi sto preoccupando per niente. Però non avrebbero dovuto scriverlo in una rivista femminile, dove sia i problemi trattati sia il relativo linguaggio erano meno aggressivi. Si parlava per esempio dell’herpes, e di pressanti problemi ad esso collegati. Una ragazza era piuttosto preoccupata, per citare un caso, perché non sapeva se con l’herpes al labbro poteva fare pompini. Una preoccupazione legittima, niente da dire, espressa in modo semplice, con niente che lasciasse presagire una simile impennata del linguaggio proprio nella stessa pagina. Era una ragazza che voleva apprendere e il medico era molto coscienzioso nel rispondere, e semplicemente le spiegava che se fosse stata lei ad offrire sesso orale con un herpes alla bocca, avrebbe dovuto evitare al suo partner futuri pentimenti e colorite recriminazioni, e magari anche qualche irripetibile epiteto nei suoi confronti, proteggendolo con un profilattico. Tutto sommato, a lui andava bene. Per lei invece sarebbe stato più complicato nel caso inverso, spiegava il medico, che non intendeva tralasciare nessun dettaglio. Infatti, mancando di sostegno per il preservativo, avrebbe dovuto aspettare di ricevere sesso orale fino alla guarigione dell’herpes. Sfigata, ma il medico non l’ha scritto. Tornando a parlare di linguaggio, di quando in quando gli speaker della TV fanno scoperte incredibili di parola nuove, ma credo di averlo già scritto. Ricordo un tempo in cui non c’era uno speaker che non trovasse il modo di pronunciare la parola inglese escalation. La ficcavano dappertutto, e mano a mano che il tempo passava, la pronunciavano in modo sempre più orribile. Ma quanto potrebbe costare alla RAI o a Mediaset un consulente linguistico? Ci sono un sacco di insegnanti a spasso, una massa di stranieri che parlano un ottimo inglese, macché, strafalcioni dopo strafalcioni, ad ogni trasmissione, per la disperazione degli insegnanti, quelli occupati, che hanno perfino dovuto imparare a far funzionare i computer per mostrare scene e dialoghi originali. Quello che si ascolta in TV, che piaccia oppure no, rimane impresso a fuoco, viene subito assimilato e ripetuto a scuola e altrove. Ma quanto può costare un (dico uno, perché basta e avanza) consulente linguistico? Credo di essermelo già chiesto, ma credo anche che non ci sarà mai risposta e tanto meno che ce ne sarà mai uno e che, quanto alla pronuncia di parole straniere, dobbiamo rassegnarci ad ascoltare una infinità di cazzate all’infinito.

martedì 10 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Domenica, 14marzo 2010
Mi sono svegliato alle sei meno un quarto, ho cercato di riprendere sonno, ma non c’è stato verso. Appena sveglio mi viene sempre voglia di caffè, riflesso condizionato, perciò sono sceso a farmene uno bello robusto. Aspetto sempre che arrivi il diciotto, per l’ecografia ai linfonodi, poi torno dalla doc per una revisione generale. Una sorta di tagliando. Se va tutto bene, mi riprendo la libertà di respirare aria inquinata all’aperto. A proposito, devo fare il tagliando anche al fuoribordo, o va a puttane la garanzia. Se ne parla dopo il diciotto. La libertà, bella parola. Tutti la vogliono, ma pochi se la sanno tenere. Ieri ho sentito uno che ce l’aveva con il primo ministro e diceva che se lo avesse incontrato gli avrebbe…, poi si è ricordato che veniva ripreso e ha concluso dicendo che non lo sapeva neanche lui cosa gli avrebbe fatto. Dall’espressione si capiva che non lo avrebbe invitato a bere un caffè. Prima possibile deduzione. Libertà vuol dire che si è liberi di spaccare la faccia a chiunque non la pensi come noi. Conoscevo uno studente che esigeva venisse rispettata la sua libertà, perciò entrava e usciva dall’aula a piacimento e, se interrogato, si guardava dal riferire sul programma e cercava di impegnare l’insegnante in discorsi su una filosofia mal digerita. In genere, però, preferiva evitare le interrogazioni rimanendo assente e lasciando agli altri la patata bollente, insomma, era una rottura di palle perfino per i compagni. Seconda possibile deduzione. Libertà significa poter ignorare le regole che disciplinano i comportamenti in un consesso sociale grande o piccolo e fregarsene di mettere altra gente con il culo sulla graticola al proprio posto. Chi si droga o va in cerca della sifilide o dell’AIDS può farlo solo perché è libero di farlo. Terza possibile deduzione. Libertà significa avere facoltà di ridursi alla condizione di rottame umano, inquinando senza scampo le vite degli altri, della famiglia. E’ consuetudine, durante le gite scolastiche, che gli studenti passino la notte ad ammucchiarsi nelle camere, a rincorrersi nei corridoi, a gridare come forsennati, a danneggiare le suppellettili dell’albergo, a mettere in agitazione gli insegnanti e chi studente non è più e vorrebbe riposare, e anche il personale dell’albergo, costretto a sorbirsi un mare di telefonate di protesta. Quarta possibile deduzione. Si può rompere i coglioni al prossimo impunemente, in nome della libertà. La politica di oggi è un gioco al massacro, gli avversari politici sono diventati nemici da uccidere, non c’è più Parlamento senza insulti e anche qualche scazzottata. Se tutto questo accade, è solo in nome della libertà, naturalmente. Forse andrebbero istituiti corsi intensivi, per giovani e vecchi, per chiarire una volta per tutte se da una libertà tanto sbandierata può scaturire un casino del genere. Se interroghiamo la storia, la risposta è sì, basta ripassarsi gli accadimenti dei primi venticinque anni del secolo scorso. Per inciso, siamo nel decennio del nuovo secolo, le premesse non sono buone. La vera domanda è cosa può scaturire da un casino del genere. Anche questo ce lo dice la storia. Senza fare troppa distinzione fra rossi e neri, perché i primi volevano consegnarci a Stalin, i secondi a Hitler, l’Italia ha subito una dittatura e non ne ha subito un’altra dopo la guerra solo perché i tanti lutti, le privazioni e le distruzioni avevano ricordato a molti italiani il vero significato della libertà. Ora mi pare che siamo punto e daccapo. E suona come idea balzana una libertà che è fatica, responsabilità, rispetto della propria dignità e di quella degli altri, impegno di non invadere spazi altrui, e che, in dose incontrollata, provoca bruciature di primo, secondo e terzo grado e può spedirti all’inferno. Un concetto semplice, che dovrebbe essere incluso nei programmi ministeriali come materia propedeutica e imprescindibile. Esiste tuttavia un segnale di allarme contro gli abusi. Scambiarsi i ruoli. Come si sentirebbe quel tizio in TV, incontrando un energumeno che gli spacchi il muso; cosa proverebbe lo studente in libertà, al posto del compagno interrogato in sua vece perché lui si era concesso una licenza; come si sentirebbe chi si droga, al posto del padre, della madre, di chi aveva in lui un minimo di stima; come, i politici, immaginandosi nei panni di tutti coloro che per la preziosa libertà si sono fatti ammazzare, e all’uso molto improprio che ne viene fatto in Parlamento? Cattolici o non cattolici, basterebbe ricordarsi di non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Sembra facile, ma noi siamo gli esseri umani, specialisti nel tramutare cose scontate in difficoltà insormontabili, se c’è di mezzo il tornaconto.

venerdì 6 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Sabato, 13 marzo 2010. Ieri ho finito di risolvere l’enigma dell’uomo ucciso misteriosamente nel suo appartamento, chiuso a chiave dell’interno e con la catenella di sicurezza alla porta. Un breve giallo di una ventina di cartelle, come richiesto per il concorso. Scorre liscio come l’olio dal principio alla fine. Il miglior test per i miei scritti è farli leggere a mia moglie. Chissà per quale motivo, per anni non ha neppure voluto vederli. A lei piacciono i gialli pieni di mistero, dove il detective è un deus ex - machina che si affida a una logica serrata e alla fine riesce sempre a risolvere i casi più intricati. Io ho sempre preferito il giallo moderno, pieno di azione e di rischio. Poi c’è stata una svolta. L’ho convinta a leggere gli ultimi tre romanzi e le sono piaciuti. Erano più vicini al suo immaginario e al suo gusto. Quasi non ci credevo. Da allora mi legge più volentieri, ma è sempre molto critica. Di conseguenza, se capita che esprima un giudizio positivo, come potrebbe essere Mi è piaciuto, l’ho letto volentieri, per me sono campane a festa. Con il passare del tempo, mi sono tolto il vizio di progettare letture per gli amici, perché ho scoperto che i più non ne avevano alcuna voglia, spesso non amavano affatto la lettura, ma siccome si sentivano obbligati ad esprimere un giudizio, non potevano evitare di leggerli. Avrebbero anche potuto farne a meno, perché non ne ricordo uno che abbia espresso critiche. Piacevano a tutti, incondizionatamente. Anche se speravo in giudizi positivi, tanto sperticato consenso mi deprimeva. Alla fine ho sospettato che il solo fatto che li obbligassi a leggere fosse per loro una gran rottura di palle. Poi ho provato a mettermi nei loro panni e ho capito di aver ragione. Errare è umano. Cercando di rimediare, ho perfino chiesto dei manoscritti in restituzione, adducendo necessità immediate per improbabili richieste da parte di case editrici. Così non resta che mia moglie. Trattandosi persona che le cose non te le manda a dire, ma te le spiattella in faccia, resterà la mia sola critica a venire. Se ne avrà voglia. Oggi sono andato al corso per il patentino nautico. Devo dire che mi sono divertito. A dire il vero, è stata una lezione a velocità supersonica, diciamo cinque lezioni in una, ma mi sono divertito lo stesso. Il relatore esponeva in modo chiaro, aiutandosi con una lavagna e delle carte nautiche, e riusciva a farsi intendere anche senza rispettare i limiti di velocità. La prima cosa interessante è stata che appena metti piede sulla tua barca, ne diventi automaticamente il comandante e che se pensassi per un attimo al carico di responsabilità che da quel momento ti piove sulle spalle, potresti anche scegliere di andare a farti una nuotata. L’altra cosa interessante è stata la determinazione della rotta. Tutta roba che avevo imparato prima di avventurami in una breve crociera alle Tremiti, tempo fa, ma non ricordavo un accidente. L’angolo di rotta, il nord magnetico, velocità del vento, velocità della corrente, taratura della bussola, molto meno complicato andare in macchina. Poi abbiamo visto come si determina il punto nave, perché può tornare utile sapere dove cazzo sei andato a finire dopo una burrasca che ti ha sbatacchiato per un paio d’ore. Per fortuna, a parte due brevi crociere, è raro che mi allontani un paio di miglia dalla costa, e quando si naviga a vista è come andare in macchina e non c’è bisogno di tutto l’ambaradan. A voler essere onesti, in genere non serve neanche in alto mare, ci pensa il GPS satellitare. Gli dici dove vuoi andare, inserisci il timone automatico e puoi anche sistemarti comodo in cuccetta e rimettere la sveglia. Come si dice, però, il diavolo fa le pigne ma dimentica il coperchio, così anche il GPS può fare brutti scherzi. Allora capita che il comandante si debba proprio mettere a fare il marinaio e se non conosce bene tutto l’ambaradan sono cazzi. Ce ne sono stati di grandi marinai, e ce ne sono, soprattutto velisti. Quando penso a loro, il primo che mi viene in mente è Soldini. Impossibile dimenticare quelle immagini dall’Atlantico, alla TV, mentre affrontava onde di burrasca alte venti metri con il vento a cinquanta nodi, o quando era in testa a una regata oceanica in solitario, e ha ricevuto un SOS di una francese che si era capovolta a trecento miglia di distanza. Non è stato a pensarci e ha invertito la rotta. Non so come abbia fatto, con il mare in quelle condizioni, ma è riuscito a trovarla, l’ha tirata a bordo, ha proseguito la regata e ha vinto. Un gigante. Alla regata partecipava anche un nano, che ha cercato di invalidargli la vittoria con il pretesto che poi erano in due nella barca. Ma la francese non aveva prestato alcun aiuto a Soldini, non poteva, e l’ha sostenuto a spada tratta. Vive la France!

giovedì 5 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Martedì, 9 marzo 2010. C’è qualcosa di nuovo, oggi, alla TV. Sono stati scoperti i bamboccioni. Pare che la gioventù italiana sia un’accozzaglia di bamboccioni. Si tratterebbe di una fascia sociale che va dai venti ai trentacinque, quarant’anni. Comprende nullafacenti, universitari, vitelloni, discotecari a tempo pieno, lavoratori part-time, ma c’è pure qualcuno, non molti, pare, che lavorano e sarebbero in grado di sostenersi da soli, mandando in congedo mamma e papà. Non saprei dire quanti italiani siano inclusi nella categoria, ma devono essere in numero considerevole, se hanno fatto incazzare il ministro Brunetta e opinionisti di rispetto, anche Roberto Gervaso, che in proposito è apparso molto determinato, dichiarando che i genitori dovrebbero togliere loro le chiavi di casa. Quanto al ministro Brunetta, mi pare che abbia espresso il convincimento che sarebbe buona cosa sbatterli fuori di casa a diciotto anni. Naturalmente c’è stata una levata si di scudi, perché in Italia c’è sempre una levata di scudi, ogni volta che vengono proposte soluzioni più o meno drastiche. Il nostro è un paese democratico sul serio, un esempio unico a sostegno del vecchio detto che parla della democrazia come della peggior forma di governo, ma l’unica possibile. E siccome è davvero l’unica possibile per conservarci nella condizione di esseri pensanti - le alternative sono state proposte da Hitler e Mussolini, per parlare di casa nostra e di confinanti, da Stalin, alias Baffone, che sarebbe dovuto venire anche in Italia ma per fortuna ha declinato l’invito di certe frange suicide di casa nostra, da Saddam Hussein buonanima, e continuano ad essere proposte da condottieri come Ahmeninajad, e volendo continuare, rimbalzando dall’Asia all’Africa, l’elenco sarebbe interminabile - dovremo continuare a sorbirci levate di scudi nelle aule parlamentari e nelle piazze. Il guaio è che la levata di scudi è diventata automatica, una reazione normale che però non tiene più conto della validità dello stimolo. Per esempio quale testa di cazzo non riuscirebbe a capire, di getto e senza bisogno di chiarimenti, che il piccolo Brunetta si è concesso licenza di sparare una grossa stronzata, specie quando ha ipotizzato di togliere una cifra dalle pensioni e passarla ai bamboccioni per levarseli dai coglioni? In un paese come il nostro, dove il parlamento soffre di elefantiasi e la burocrazia è sempre attenta, solerte e impegnata a rallentare e a volte perfino a ostacolare l’applicazione di leggi regolarmente promulgate sulla Gazzetta, come avrebbe potuto trovare la strada una tale sventurata ipotesi? Resta il fatto, e questo credo sia un aspetto non trascurabile, che i bamboccioni sono una categoria improduttiva, parassita e costosa. Costosa a mamma e papà, anche in termini psicologici, perché per anni continueranno a chiedersi cosa hanno fatto di male per non potersi godere un po’ di vita indipendente proprio nell’ultimo scorcio, nella fase discendente, quando i padri non dovrebbero più arrovellarsi a capire che cazzo vogliono i figli e le madri rovinarsi la schiena con i panni da lavare, da stirare e i letti da rifare. Credo che a questo punto, se non esiste un motivo più che valido per l’ostinato ancoraggio, si potrebbe davvero ipotizzare un salutare calcio in culo. Categoria incredibilmente costosa allo stato, perché non produce ricchezza, non paga le tasse e sbafa l’assistenza sanitaria. Al confronto, fumatori e obesi sono roba da ridere. In Inghilterra, in Francia, negli Stati Uniti, ma anche in altri stati, se non vengono sbattuti fuori di casa a diciott’anni, poco ci manca. Insomma, quando arriva il momento, glielo dicono a brutto muso. Girando per il mondo, quasi ti sorprende notare che i diciottenni non sono adulti solo perché possono prendere la patente o sbattuti in galera se fanno cazzate. Sono gente responsabile. Si dividono l’affitto di un appartamento in quattro, anche cinque persone, mescolati fra maschi e femmine, nel rispetto delle relative privacy, e lavorano. E studiano. Pare che da noi ci sia un mammismo potente, un ostacolo insormontabile verso una condizione di piena responsabilità per un figlio che dovrebbe vivere con qualche comodità in meno, rispetto ai canoni materni. E’ la verità. Voglio citare ancora Gervaso, perché è un intellettuale serio, perché mi è anche simpatico, perché di solito non dice cazzate e merita considerazione anche quando esagera con una iperbole. Cosa ha detto? Una madre italiana allatterebbe anche un figlio di quarant’anni. Chissà perché ho parlato tanto dei bamboccioni. Ci sono sempre stati, in scrupoloso anonimato. Di nuovo c’è solo il nome. Inutile dire che ne avrebbero fatto a meno.

mercoledì 4 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Lunedì, 8 marzo 2010. Nuvole, continua a far freddo e mi manca il coraggio di uscire a prendere un po’ d’aria. Se mi torna la febbre mi butto dalla finestra. Un gesto simbolico, ho lo studio al pianterreno. La doc. ha chiesto a mia moglie se ho più fatto l’ecografia per i linfonodi. Le ha detto che ho un appuntamento per il 14 aprile. Si è incazzata. Linfonodi del cazzo. Devo fare un salto all’ASL e vedere di anticipare. Se mi presento con il referto, magari si da una calmata. Ieri sono andato al cinema e devo dire che mi sono divertito abbastanza. Sì, malgrado fosse uno degli ultimi film italiani, che, all’uscita, di solito, mi fanno chiedere che cazzo ci sono andato a fare. A parte qualche eccezione, gli attori italiani sono quello che sono. Ogni volta che vedo un film americano, mi viene da piangere, perché istintivamente faccio paragoni e cado in depressione. Siccome la speranza è dura a morire, per fortuna, continuo a vedere anche film italiani. Tornando al film di ieri ho imparato che a qualcuno può scureggiare (sic!) il cervello. Non solo colorita, come espressone, ma anche meritevole di esegesi. Spesso il linguaggio scurrile è più pregnante, più comunicativo. Vediamo di seguire un percorso consequenziale. Se ti scureggia il cervello cosa può uscirne? Di sicuro un gran tanfo, ma nella prospettiva di un futuro quasi immediato, anche merda. Quindi non puoi che pensare o diffondere stronzate. Efficace, sintetico. Perché mi vengono in mente tanti conduttori e conduttrici della TV? Ieri mi ha telefonato mio figlio per farmi sapere che la Biblioteca locale ha indetto un concorso per scrittori di romanzi gialli. Sono andato sul sito. Iscrizione gratuita e scadenza per la consegna dei dattiloscritti fissata per il 5 di giugno. C’è anche un premio di 1.000 euro per il vincitore. Più la gloria, naturalmente. Rimane poco tempo. Di seguito, nel bando, c’era un’informazione interessante circa il numero delle cartelle richieste. Non più di venti. Fattibile. Il fatto è che ho lasciato un romanzo a metà all’inizio della malattia e contavo di riprenderlo da un giorno all’altro, giusto per non perdere il feeling con i personaggi, e anche con la storia. Avevo trovato il modo di sbarazzarmi della testa di una russa decapitata e me lo sono dimenticato. Se aspetto ancora ne verrà fuori un’altra storia. Per giunta, questo diario è diventato una compagnia irrinunciabile, un amico capace di sopportarmi anche quando riesce difficile perfino a me. Un’interruzione sarebbe un tradimento. Dovrei curarmi anche di lui. Vediamo di che razza di giallo potrebbe trattarsi, e come si potrebbe riuscire a incastrare il crimine, l’indagine e la soluzione del caso in venti cartelle. Trenta righe di sessanta battute ciascuna. Occorre un caso semplice.
Una donna fa uccidere un ricattatore dal proprio amante e costruisce una serie di indizi per incolpare il marito. Il marito viene arrestato ma lui, l’investigatore, la inchioda al suo crimine.
Il marito uccide la moglie, ricca ereditiera, e costruisce una serie di indizi per far accusare un’amante scomoda che ha avuto violente discussioni con la moglie e l’ha minacciata di ucciderla davanti a testimoni. La donna viene arrestata ma lui, l’investigatore, inchioda il marito al suo crimine.
La moglie scopre che il marito ha inviato una mail alla sua migliore amica, giovane e anche lei sposata, ma è solo una finzione per spingere la moglie a reagire con violenza e compromettersi in pubblico. In realtà la vera amante dell’uomo è un’altra, molto vicina alla moglie, che con allusioni e insinuazioni la spinge a cadere nell’inganno. Il vero scopo dell’uomo e spingere le indagini per l’uccisione della moglie, crimine che ha già in mente di compiere, verso la sua migliore amica.
Tre trame quasi parallele, buttate giù di getto. Potrebbero anche risultare convincenti. Però mancano di suspence e mistero. Vediamo se mi viene in mente qualcosa di meglio.
Al primo piano di un edificio si rompe una finestra e i vetri cadono sulla strada. Dall’interno proviene un grido orribile e forti colpi, la cui origine è difficile da identificare. Qualcuno chiama la polizia, gli agenti raggiungono il primo piano, identificano la stanza, ma non riescono ad entrare. E’ chiusa. Dopo aver sfondato la porta notano che era stata chiusa dall’interno a due mandate e la chiave era ancora nella serratura. Sul pavimento giace un uomo. Non ha segni di violenza, non ha ferite di nessun genere. Sembra che dorma, ma è morto. La polizia brancola nel buio. Il fratello della vittima vuole saperne di più e si rivolge a un detective privato. Cinquant’anni, poliziotto detective in pensione. Ha un ufficio scalcinato, ma buone referenze. Viene a conoscenza, in qualche modo, dello stato della stanza e dei reperti. Ignote le cause del decesso. A parte i dettagli dei vetri rotti e della porta chiusa dall’interno, nella stanza c’erano una pennetta per computer, che poi era risultata priva di file, una scarpa da donna con il tacco alto, un biglietto da dieci euro proprio accanto al morto e un mazzo di chiavi. Apparentemente non erano stati trovati altri elementi di qualche interesse, tranne un paio di calze da donna, ancora ben chiuse nella confezione di cellophan in un cassetto. Il morto era scapolo e viveva da solo. Mistero e suspence non mancano, anzi. Mutatis mutandis, non resta che risolvere l’enigma in una ventina di cartelle.

martedì 3 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Domenica, 7 marzo 2010
Scirocco e nuvoloni da ponente, niente di buono. Sole a mezzo servizio. Si fa vedere per una decina di minuti, poi corre a nascondersi dietro una nuvola. Temperatura, 9 gradi. Questi sono i dati che un appassionato di vela registra quasi inavvertitamente, appena mette il naso fuori della porta di casa, poi li combina e ne estrae il responso per la giornata. Stamattina, per esempio, si potrebbe anche navigare, ben coperti e con una bella cerata appresso, nel caso i nuvoloni che vengono da ponente si facciano scuri e decidano di guastarti la festa. In genere fai in tempo a rientrare prima dello scroscio, ma se è un giorno di sfiga non ce la fai. Ma non è certo la fine del mondo. Se proprio sei un incosciente e non ti sei portato una cerata o qualche indumento impermeabile, puoi sempre ancorarti e rifugiarti sotto la vela. Se il mare si incazza sul serio e non puoi ancorarti per non rischiare che le onde ti spezzino la cima dell’ancora, o ti sbarbino la bitta di aggancio o ti stacchino un pezzo di prua, allora puoi sostituire l’ancora con un secchio e farti portare dalla corrente. Se la barca è in movimento, non puoi rimanere sotto la vela, perché dovrai anche vedere dove cazzo vai a finire, allora potrai sfilare la vela e avvolgertela intorno al corpo e sopra la testa come un barracano africano. Sarà difficile da credere, ma in tutto questo non c’è niente di drammatico. Solo adrenalina allo sballo, come sulle montagne russe, come farsi scivolare da quaranta metri di altezza all’interno di un mezzo tubo che ti scarica in una vasca a una velocità travolgente – mi è capitato di farlo in un aquapark della Florida - la miglior terapia possibile per gli ingenui che vanno a cercarsi lo sballo nell’alcol, nelle discoteche, nell’ecstasy o in qualcosa di peggio. Va detto che le eventualità citate e le relative contromisure riguardano una barchetta in vetroresina di quattro metri, ovviamente senza cabina e senza un cazzo di posto dove ripararsi. Per uno sballo sano, si capisce a chi mi rivolgo, compratevene una e imparate a governarla. Non è difficile. Potete trovarla, di seconda mano, per poche centinaia di euro, e auguri di cuore. Se arriverete anche voi ad annusare istintivamente il tempo, di primo mattino, uscendo dalla porta di casa, potrete dire di avercela fatta. Mi sento sospeso di una ventina di centimetri mentre la terra mi ruota sotto i piedi, e tutto per colpa di un virus figlio di puttana che ha voluto privilegiarmi eleggendo i miei bronchi a residenza invernale. Spero tanto di averlo sfrattato, ammazzato, disintegrato. Oggi mi tocca l’ultima compressa, poi tornerò a farmi visitare. Spero in una sentenza di scarcerazione. La barca in cantiere ha bisogno dei paioli, di un appoggio per l’albero con la vela al terzo, di due bitte ad anello a poppa per farci scorrere la scotta, di sistemare la cima dell’albero per la vela latina che devo ancora ritagliare dal telone, insomma, di tante piccole cose, mentre io mi sto rompendo i coglioni in attesa di verdetto. Forse sto cominciando a rompere anch’io, ieri con il computer e oggi con la barca. Per fortuna mentre scrivo ascolto un brano di Schumann, che è come ascoltare le acque limpide di un torrentello da trote. L’impervio e imperscrutabile percorso della vita. Riflessione spontanea, quando si pensi che aveva cominciato con gli studi di giurisprudenza, abbandonati dopo un anno per dedicarsi al pianoforte. Una passione violenta. Con esercizi impossibili ai tasti si rovinò un dito e la carriera. Dal tormento emerse il compositore. Forse bisognerebbe evitare di chiedere ai bambini cosa faranno da grandi. Non è una domanda sensata. Per fortuna, loro non lo sanno. Mi piace scrivere ascoltando musica classica. Intendiamoci, sono tutt’altro che un intenditore, ma mi ritengo fortunato perché riesco a godermela lo stesso. E’ come per la pittura. Ci sono opere di artisti, celebrati dalla critica, per lo più intellettualoide, che non mi riscaldano neppure una cellula cerebrale, che non mi invitano che a uno sguardo di striscio, o che perfino mi fanno accelerare il passo. Naturalmente a causa della mia incompetenza. Ce ne sono altre, tuttavia, che starei ad osservare per ore, con istanti di vero godimento, malgrado la mia incompetenza. Sarà perché nutro forti sospetti verso l’arte intellettuale, anche perché stimola gli sproloqui degli intellettualoidi. Come diceva De Chirico, l’arte è contemplazione, godimento nella contemplazione. Lo stesso vale per la musica. Godimento ad ascoltarla, benché profani, o quasi. Per fortuna sembrano tutti d’accordo nel ritenere la musica asemantica, cioè senza significati. In caso contrario, non avremmo avuto speranze contro un oceano di interpretazioni filosofiche, psicologiche, sociologiche e politiche, e chi più ne ha più ne metta. Avrebbero anche potuto toglierci il gusto di ascoltarla.

lunedì 2 agosto 2010

Diario di un qualsiasi nessuno

Sabato 6 marzo 2010
Stamane è sorto il sole. Hemingway aveva ragione. La temperatura è quasi dieci gradi, più che sufficiente per godersi un’escursione a vela. Quasi cedo alla tentazione. Poi mi sovviene che dovrei prima portare la barca a terra per raschiare via un palmo abbondante di vegetazione sotto la carena e, peggio ancora, che sono in cura. Oggi ho preso la nona compressa di antibiotico e ne manca ancora una. Meglio soprassedere. E’ colpa del sole. Quando lo vedo scatta un meccanismo automatico che lo combina con mare, vento, vela, barca. Non posso farci niente. Per la barca in cantiere ho pronti due alberi, uno più a prora, sul quale dovrei provare una vela latina, uno più centrale per una vela al terzo. La seconda è già pronta. Per armarla ho approfittato dei primi giorni di reclusione per malattia, e aspetta ben ripiegata nel cofano dell’auto. La prima, invece, non ce l’ho. Il problema è che di questo tipo di vela non sono pratico e non sono riuscito a trovare i giusti rapporti con la conformazione della barca. Mi sono fatto un’idea su Internet, con delle illustrazioni che però mancavano delle precise misurazioni. L’idea che mi son fatto è sufficiente per fare un tentativo, ma siccome una vela in nylon o materiale sintetico - di semplice tela non se ne fanno più - costa un’iradidio, sarebbe stato un tentativo dispendioso a rischio di insuccesso. Poi il caso mi è corso in aiuto. Pochi giorni fa mia moglie ha acquistato un telone per coprire la legna ricavata da un albero abbattuto in giardino. Era di plastica, piuttosto robusta. Mentre lo sistemavo sopra il mucchio di ceppi, ho notato quanto fosse robusto e leggero allo stesso tempo, e il pensiero di ritagliarci una vela di prova è venuto di conseguenza. Sono corso a comprarne un altro, della grandezza necessaria, e non vedo l’ora di mettere in atto il progetto. A dire il vero ce l’ho già sulla carta e potrei anche cominciare a tagliare, ma l’esperienza insegna che è molto meno facile sbagliare se hai gli oggetti sotto mano. Dunque, aspettare. Quando si sta male, sarebbe meglio non avere progetti. Godersi il riposo e la malattia, che, se è venuta, una ragione ci deve essere. Difficile trovarla, ma se è vero, come sostengono alcuni, che ogni piccolo spostamento, ogni evento, anche ogni pensiero, è una compensazione di altri spostamenti, eventi o pensieri presenti in altri spazi dell’orbe terracqueo, non importa quanto lontani, allora una ragione ci deve essere. Naturalmente, date le abissali distanze, meglio limitarsi ad accettarla, senza pretendere di trovarla. Se a questo punto mi chiedessero Ma di che cazzo stai parlando?, farei fatica a rispondere. Meglio attestarsi su sponde più collaudate e più rispondenti al contingente. Ma che cazzo hanno combinato quelli del Pdl? Quando ho sentito che hanno presentato le liste elettorali in ritardo ho creduto di aver capito male, poi ho seguito con maggiore attenzione e ho dovuto convincermi di aver capito bene. Sono rimasto basito. Basito, un termine caro a Pirandello, caduto quasi in disgrazia per un gran numero di anni, riscoperto chissà da chi e rimesso in circolazione negli ultimi tempi. Non che mi piaccia gran ché. Forse Sono rimasto di stucco sarebbe stato più incisivo, ma probabilmente a chi mi sta leggendo di tutto questo non frega un accidente, perciò torniamo a Sono rimasto basito. Stento a credere che a certi livelli della politica possano verificarsi simili assurdità, ma la notizia imperversa alla TV e sulla carta stampata, e benché nessuna delle due meriti una mano sul fuoco, pare che sia proprio vera. A far piovere sul bagnato o vomitare sulla merda, come preferite, è arrivata la spiegazione che tutto sarebbe accaduto per un panino. E’ vero che eventi epocali possono scaturire da motivazioni inaccettabili, vedi Adolf, che per il rifiuto di una ragazzina ebrea ne ha bruciati sei milioni e ha dato fuoco all’Europa, e se è anche vero che negli instabili equilibri dell’universo la mancata accettazione di una lista elettorale, per di più di una sola regione, non merita neppure menzione, il fatto che ciò sia accaduto perché un tizio si è fatto un panino galeotto lascia ugualmente perplessi. Mi sia consentito aggrapparmi al mio chiodo fisso, anche a rischio di rompere i coglioni, e tornare a quel tormentone verminoso che è la scuola. Ce n’era un’altra, in tempi lontani, dove un ha scritto senza l’acca scatenava un finimondo, costava sicuramente un’insufficienza e poi un impegno costante, nei giorni a venire, per scrollarsi di dosso l’alone riprovevole che ti restava appiccicato come una nuvola pestifera. Era la stessa scuola dove un Machiavelli scritto con due c faceva di un tema, per quanto bene svolto, carta straccia, dove, per dirla tutta, non si tolleravano inesattezze, dove la puntualità era la prima referenza. Si esagerava? Forse. A fronte di quella scuola, ce n’è stata un’altra, negli ultimi tempi in particolare, dove la puntualità era illustre sconosciuta, dove si poteva uscire ed entrare a qualsiasi ora con il consenso, ma spesso la complicità dei genitori, dove di ha scritte senz’acca neppur si teneva conto, figuriamoci di Machiavelli scritto con due c, perfettamente a suo agio anche sui cartelli indicatori, dove tutto era tollerato, per non dire consentito, in nome di …di che cosa? Si voleva evitare le difficoltà, rendere più agevole il percorso scolastico, evitare le defezioni, forse anche le responsabilità? Un tizio, incaricato di presentare le liste elettorali per le elezioni regionali ritiene lecito andarsi a fare un panino a rischio di arrivare in ritardo. Arrivare in ritardo, che sarà mai? Il can can mediatico gli avrà chiarito le idee, suppongo, ma l’incontinente paninaro potrebbe solo essere il prodotto di un sistema che, in realtà, di lui se ne è fregato. Non so quanto sia vero che il mal comune è un mezzo gaudio, ma se lo fosse, sarebbe una mezza festa ogni giorno. Da qualche parte, negli Stati Uniti, in un istituto di scuola superiore è stato licenziato in tronco l’intero corpo insegnante, una novantina di persone, preside inclusa, perché c’erano troppi bocciati. Vanno aggiunti quattro bidelli e, se non sbaglio, anche il preparatore atletico.